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U2 – The Joshua tree

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L’America è, per antonomasia, il continente della speranza e del sogno: per secoli luogo fisico vergine ed inesplorato, teatro di imprese possibili e non; e luogo mentale e spirituale, meta simbolica di infiniti viaggi alla ricerca della propria realizzazione.

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A metà degli anni ’80, dopo il successo dei primi quattro album e la partecipazione al Live Aid del 1985, agli irlandesi U2 mancava ancora la consacrazione nell’Olimpo del rock, l’album che li lanciasse definitivamente nel mito. La titanica impresa fu condotta e meravigliosamente portata a termine con “The Joshua tree”, album del 1987 prodotto da Brian Eno, e frutto della prolifica tensione creativa tra la visione del cantante e frontman della band, Bono Vox, che voleva analizzare nel profondo le radici del rock americano, ed il chitarrista The Edge, convinto nell’intenzione di continuare sulla strada delle sonorità del loro lavoro precedente, “The unforgettable fire”. Il risultato è un disco di una potenza musicale sconvolgente, dove l’epicità degli arrangiamenti accompagna liriche mature e riflessive, cariche di fortissimo impegno sociale e politico – si va dalla denuncia alla politica imperialista di Ronald Reagan (Bullet the blue sky) alla ricerca della fede (I still haven’t found what I’m looking for), dalla vita dei minatori inglesi oppressi dalle politiche thatcheriane (Red hill mining town) alla tragedia argentina dei desaparecidos (Mothers of the disappeared). La folgorante apertura di “Where the streets have no name” (che, a detta dello stesso Eno, impegnò gran parte delle registrazioni per essere perfezionata) è una delle più grandi introduzioni di sempre, e uno dei momenti più alti di un disco senza sbavature, pezzi deboli o cadute di stile.

Flavio Talamonti