Home Cultura Teatro

“Il Contagio”, la periferia romana che invade il palco

Al Colosseo Nuovo Teatro lo spettacolo di Nuccio Siano tratto dal romanzo di Walter Siti: una periferia mai così vera


Pasolini quarant’anni dopo verrebbe da pensare al contatto con l’idea che guida questo spettacolo, al contatto che genera il contagio. Ma siamo dopo appunto, siamo oltre, senza metafore e spogliati dal diaframma della lirica, lontani dalla poesia e dallo sguardo idealistico che percorreva le borgate nascenti della capitale. Roma è cresciuta e con essa sono cresciute le periferie, i palazzi-caserma, i ponti, i sottopassaggi, i pianerottoli e gli androni della cintura che avvolge e stringe il benessere e la frenesia cittadina. E l’umanità che è cresciuta assieme a questi ambienti la ritroviamo sul palco, quattordici individualità spogliate e consumate dalle esperienze, che alternano chiazze di colore alla dominante grigia, proprio come le facciate di molte case popolari. Uomini e donne nei quali a scalpitare sono dubbi travestiti da certezze, formatesi con il rapporto con la metropoli, con la vita fuori ma soprattutto dentro la borgata, che costringe ad essere svelti, guardinghi, disillusi, costantemente arrabbiati. Caratteristiche comuni diventano psicologie e ad avvicendarsi sul palco sono le vita più diverse, sempre sotto gli occhi di tutti, perché come in borgata ognuno sa tutto di tutti, così a teatro, ogni esistenza si confonde con l’altra, ogni storia osserva le altre. E a penetrare in questa periferia come un germe è un professore, sedotto dai racconti dei borgatari come è sedotto dalla bellezza del ragazzo che corteggia, costretto a prostituirsi e concedersi ai maschi, fatto che genera ilaità ma mai disprezzo da parte dei suoi amici-condomini. Il professore chiede e ogni abitante di quel palazzo che progressivamente si svuota sul palco, parla, racconta, tra canzoni composte da Pisolini (“Che cosa sona le nuvole” per esempio scritta per Domenico Modugno) e soprattutto i Radiohead, in una fusione tra le borgate di una volta e le periferie odierne, con musiche che accompagnano, con bisbigli e urli, tra silenzi e rumori di strada. Figure maschili sempre in fuga, sempre a nascondersi, segnate dall’illusione di emanciparsi e liberarsi dai sobborghi che sfocia nei furti, nella prigione e nella droga che sembra arrampicarsi lungo tutte le scale del palazzo. E le donne sono forse la forza che cementa questa umanità tanto varia, con il sacrificio, il silenzio, la complicità e un’innata vocazione al martirio, ad assecondare le diverse declinazioni del maschile che si presentano ma capaci di conservare sogni e passioni sotterranee tra stenti e sofferenze. E tra una madre siciliana e l’immigrato rumeno si costruisce la tela della periferia contemporanea, multietnica e dalle sfaccettature infinite, sempre più abbandonata a se stessa e in cui addirittura si verifica qualche penetrazione borghese destinata ad essere un contatto fugace. Come quello dell’architetto, una donna distratta e confusa, fieramente di sinistra e senza alcuna idea
ma persa in mille manie diverse, che si innamora di un giovane insanamente convinto di poter avvicinare due mondi tanto distanti come la borgata e la borghesia. Ma l’architetto scappa, e quando non sono gli altri a scappare sono i borgatari ad essere feriti per aver creduto di vivere nel mondo e non nella periferia. Ogni esperienza di allontanamento incontra il lusso e la vacuità della vita cittadina, il compromesso morale, l’illegalità e ogni fuga traccia un ritorno all’origine, alla pangea degli esiliati alla nascita. Una frase, scandita con sarcasmo dal professore, “circonda” lo spettacolo da inizio a fine: “La borgata è il futuro ma il futuro non si farà in borgata”. Sentenza che riassume il paradosso a cui sono condannati quei quattordici inquilini e tutti le altre centinaia di migliaia di individui che vivono al limite, territoriale ed esistenziale, guardati con sentimentalismo e ignorati, attratti e sfruttati da chi in realtà si tiene ben lontano da loro, dalla loro “sala d’attesa”. Frase che dimostra come la borgata sia un “mondo in scala”, attraversato da disprezzo, diffidenza reciproca, tensione, malessere pronto ad esplodere in violenza.
Il romanzo “Il contagio” di Walter Siti uscito nel 2008 ispira questo spettacolo, che con la guida di Nuccio Siano (tra l’altro interprete del professore) raggiunge una pregnanza e una forza espressiva difficilmente eguagliabili. Quella che si manifesta tra i movimenti fluidi dei protagonisti che accompagnano gli intermezzi sonori è verità e non  solo realtà, quella che si sente tra le parole e nelle vicende di questi uomini è esistenza e non solo vita. Uno spettacolo da vedere, necessariamente.

Ads

COLOSSEO NUOVO TEATRO
VIA CAPO D’AFRICA 29/A

12-17 GENNAIO

Stefano Cangiano