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Afghanistan: l’indignazione non basta

La foto della ragazza con il naso amputato pubblicata sulla copertina del Time dello scorso 9 agosto che recita la scritta “cosa succede se lasciamo l’Afghanistan” (senza punto di domanda) ha scatenato un coro di indignazione e angoscia.
Alcuni hanno contestato l’atrocità di quell’immagine, altri ne hanno denunciato il ricatto morale esplicitato nel commento, un messaggio dichiaratamente propagandistico per l’approvazione generale di una guerra “umanitaria”.
Ma qual è la storia della ragazza della fotografia? Aisha ha 18 anni ed è di etnia pashtùn, una delle popolazioni maggiormente diffuse nel Paese. A dodici anni venne ceduta in sposa a un combattente talebano, in base a un usanza detta balad, un obbligo morale  che in caso di offesa passa di padre in figlio o attraverso i vincoli di parentela tribali. Aisha diventò così la ‘compensazione’ per un omicidio commesso da suo zio. Suo marito la abbandonò presto, per compiere missioni di guerriglia, e lei scappò dalle violenze quotidiane che le venivano inflitte dal suo clan. Quando suo marito l’ha ritrovata a Kandahar, le ha tagliato naso e orecchie con un pugnale.
Una Ong, “donne per le donne afghane”, le ha procurato un viaggio in California dove Aisha ha iniziato un ciclo di interventi di chirurgia estetica che difficilmente le restituiranno un volto normale.

Il dilemma è complesso. Giustificare una guerra in nome dei diritti umani è plausibile, ma crederci è troppo.
L’azione militare voluta da Bush figlio non ha riguardato i diritti femminili nemmeno per un attimo, ed oggi gli unici elementi che comunemente si conoscono dell’Afghanistan sono le violenze, la mancanza dei diritti, le guerre interne e le dinamiche tribali considerate retrograde e incivili.
L’offensiva della Nato ha provocato a sua volta enormi sofferenze e moltissime vittime tra la popolazione locale. Ora, gli elettori di Obama, come considerano questo disastro?
In concomitanza con l’entrata in una nuova fase della guerra in Iraq, in cui gli americani lasceranno lentamente il paese, nel paese diviso dall’Hindokush gli Usa stanno perdendo centinaia di vite, collaborando all’uccisione di moltissimi civili.
Le guerre umanitarie non esistono. La copertina del Time è un’arma a doppio taglio, ma non cadiamo nella trappola. Tutto quello che succede in Afghanistan, succede anche se restiamo.
La violenza sulle donne in Afghanistan è all’ordine del giorno, anche nelle aree controllate dai governativi. E se i casi di violenza familiare sono quasi impossibili da documentare e l’impunità per gli uomini è moneta corrente, l’educazione è l’altro buco nero del paese. Lo testimoniano anche i frequenti attacchi con il gas praticati nelle scuole di base che costringono bambini e docenti ad abbandonare l’istruzione.
Nonostante nel marzo del 2004 le autorità abbiano ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sulle donne, (il 27% dei parlamentari sono donne), i loro diritti vengono continuamente calpestati. Proprio secondo la Commissione nazionale per i diritti umani (rapporto dell’aprile 2006) la condizione femminile resta ostaggio del tradizionale oscurantismo del paese su diversi piani. Oltre i talebani dunque, oltre il burqa, il velo più rigido dell’intero mondo islamico. Si tratta di violazioni diverse: quelle dei talebani hanno a che vedere con l’interpretazione ultraortodossa del Corano, quelle dei non talebani, con l’interpretazione assai flessibile delle regole consuetudinarie del paese.
I bambini e le donne sono in Afghanistan il manifesto dei diritti negati. E’ un paese in guerra da decenni, con un reddito pro-capite bassissimo e un’interpretazione rigida del dettato coranico, particolarmente forte durante i talebani, si coniuga con una tradizione oscurantista per quel che riguarda i diritti delle donne. Benché con la fine del regime talebano le cose siano leggermente migliorate, per donne e bambini, fuori da Kabul dove le condizioni sono di poco migliori, la vita è durissima.
Il tasso di alfabetizzazione riguarda solo un terzo della popolazione e la mortalità infantile è altissima: quasi un terzo dei bimbi afgani muore infatti entro i primi cinque  anni di vita. Si stima che un terzo delle donne si sposi prima dei 18 anni. Anche solo sbandierare questi dati o denunciare stupri e violenze, spesso commessi da comandanti militari o signori della guerra  ben protetti a Kabul, è difficile e pericoloso: Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afgane), organizzazione laica fondata nel 1977 da donne impegnate da allora nella lotta per la libertà, la democrazia, la giustizia sociale, ne sa qualcosa. Ha avuto a che fare prima con gli invasori sovietici e i loro sostenitori locali, poi con i fondamentalisti, dai talebani ai vari gruppi di mujaheddin. Adesso col governo Karzai. In questi anni ha perso la sua fondatrice, Meena, uccisa assieme a due collaboratori nel 1987, da agenti del Khad (i servizi segreti), con la connivenza dell’ Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra pashtun ora alleato con i talebani.
La guerra intanto si fa sempre più dura. Solo negli ultimi cinque giorni sono 22 i soldati Usa deceduti. Sembra essere entrati in una delle fasi più calde dall’inizio della guerra.
Il Great Game non è mai finito realmente. Cambiano gli scenari internazionali ma la guerra è sempre la stessa. Ci hanno “venduto” un luogo endemicamente afflitto da scontri tribali, e nulla abbiamo conosciuto della realtà dell’Afghanistan.
La coscienza occidentale è sempre pronta allo sdegno schierandosi con un movimento quasi inconscio dalla parte dei diritti. La nostra eredità culturale è quella della lotta per la parità, è quella rivolta all’Altro, nel senso più cattolico del termine. Ma non aiuteremo Aisha e nessun’altra donna afgana spingendo per una falsa guerra dal volto buono.

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Flavia Cappadocia