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Una “generazione dimenticata”

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Suona la sveglia, sono le 7 del mattino. Enzo scatta in piedi e si trascina in bagno, guardandosi distrattamente allo specchio. Quegli occhi stanchi, circondati da impietose occhiaie scure, tradiscono un volto da adolescente rigato da qualche pensiero di troppo.

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È il classico giovane non più giovane, troppo grande per alcune cose, troppo piccolo per altre.

Enzo attacca alle 9 a lavoro ed ogni giorno convive con l’ansia di fare tardi. Prende velocemente il caffè, si carica sulle spalle un’ingombrante borsa rigida e la 24 ore dove tiene il laptop e qualche documento. Corre alla fermata dell’autobus, con la consapevolezza che lo attendono due cambi e un bel tratto a piedi.

Enzo è stato fortunato. Dopo la laurea in economia e un percorso di studi brillante ma non troppo, è riuscito ad ottenere uno stage di un anno, retribuito ai minimi storici, e poi un’assunzione a tempo indeterminato. Una bella conquista, festeggiata a casa con tanto di torta di frutta della mamma e lo spumante d’occasione di papà. “Nostro figlio si è sistemato”, cinguettavano commossi.

Enzo fa un lavoro medio: medie responsabilità, medio stipendio, medio entusiasmo. Alle 18 si alza dalla scrivania come una molla, imbraccia le sue cose e corre via, giù per le scale. Lo aspetta un’altra corsa in autobus, per raggiungere il club dove suonerà stasera, per 20 euro e un paio di birre gratis. Arrivato a destinazione sfodera dalla pesante borsa rigida la sua chitarra, una Gibson Les Paul, regalo di laurea dei suoi genitori che, tranne in questa occasione, hanno sempre scoraggiato il suo amore per la musica. “Poco serio”, dicevano.

Inizia lo show. Enzo, sul palco, raggiunge uno stato catartico e ogni problema sembra lontano. In sala ci sono una decina di persone distratte che applaudono stancamente tra un drink e l’altro. Una ragazza si avvicina, compra un cd e una spilletta, entusiasta. Si chiama Sara, ha 28 anni ed una vita d’artista alle spalle. Ogni giorno si barcamena tra lavori insoddisfacenti e le sua grande passione: la scultura.

Enzo e Sara parlano tutta la sera, raccontandosi le loro esistenze da “generazione dimenticata”. “Vorrei avere 5 anni, zero preoccupazioni, zero stress!” dice lei, mentre lui afferma ridendo: “Io ne vorrei avere 80, pensione sicura, un tetto sulla testa e qualche chiassoso nipotino”. Essere bambini o anziani. Nel mezzo il nulla, o poco più.
Si lasciano, scambiandosi il numero di telefono. Lui vorrebbe darle un passaggio ma non ha la macchina. Lei è con delle amiche, tornerà con loro. Il rimpianto è grande: entrambi vorrebbero invitarsi a casa, “solo per un caffè” come si dice nei film, ma non vivono soli. Si salutano incamminandosi, lei si gira e gli fa un cenno con la mano, prima di essere inghiottita nella notte.
Enzo torna a casa in autobus, un notturno di fortuna preso al volo. Frastornato dalla serata si butta sul suo letto ancora vestito, lo stesso di quando era piccolo.

Il cellulare vibra, è lei: “Sarebbe stato bello continuare a parlare con te!”. “Si, sarebbe stato bello” pensa lui, prima di addormentarsi. La sveglia suona impietosa poco dopo: sono le 7. Tutto ricomincia daccapo. Enzo si alza, leggero. Scrive un sms: “L’inferno esiste solo per chi ne ha paura”. Non sarà proprio romantico, ma De André la sapeva davvero lunga.

Serena Savelli