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Libri come III, Roberto Calasso

Presidente e direttore editoriale della casa editrice Adelphi, scrittore, intellettuale, animatore culturale, con il suo ultimo libro “L’ardore”, Roberto Calasso costruisce un’intensa narrazione con ampi spazi di riflessione, che introducono ad una stagione filosofica quanto mai brillante, quella della cultura vedica e di un partenone di parole ancora difficile da parafrasare: un’India indagata con ingegno e attenzione, l’India del nord di tremila anni fa.


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“Un tempo remoto, perché lontano – l’epoca vedica va dal 1500 a.C. al 500 e dopo si entra nell’Induismo – e perché è quanto di più incompatibile si possa pensare con ciò che ci circonda, con quel modo di pensare che per noi è la normalità – non c’è testo antico, né greco né mesopotamico, né egizio, né cinese che comunichi questo senso di urto, di urti insanabili che danno i testi vedici – perciò una lontananza estrema e doppia” – spiega Calasso – “ma nello stesso tempo, il paradosso è la vicinanza massima, perché con ossessività e intensità parlano di cose che sono talmente indispensabili e vicine a noi, che nemmeno osiamo parlarne”. La prima è ‘l’ardore’ed è la traduzione italiana di ‘tapas’, parola sanscrita che nel corso della storia filologica è stata male interpretata, come penitenza, ascesi, mortificazione: traduzioni svianti, cristianizzanti. Ma la parola ‘tapas’ dice che è l’ardore quello da cui nascono il mondo e la mente, “la parola più vicina alla sensazione dell’essere vivi”, l’unica che ci accomuna tutti, insieme alla coscienza. Dopo il Positivismo e la coscienza intesa come epifenomeno, gli scienziati si erano avvicinati alla parola coscienza: negli anni ’70 abbiamo assistito alla moda dell’intelligenza artificiale, all’esplosione delle scienze cognitive; oggi esiste il prefisso neuro-, attribuito spesso un po’ a caso e alle volte ovunque, e la scienza continua a non sapersi pronunciare in maniera definitiva sulla questione. Eppure esistono storie, contenute nella letteratura vedica, che Calasso ha voluto ricordare per descrivere un pensiero folgorante, arcano, innominabile di un mondo fatto di acque, erba, alberi, alimenti, di rituali e gesti – un padre deve versare tutti i giorni il latte sul fuoco al mattino e alla sera – di distruzione, di colpe, dove l’uccidere è la regola del vivere, dove il sacrificio non è espiazione ma è la colpa stessa. Un mondo che sorprendentemente non ha lasciato oggetti materiali, che oggi probabilmente potremmo continuare a conservare nei musei: nessun edificio, opera d’arte, utensili, monili, ma un crogiuolo vertiginoso di testi sapienziali. L’unico oggetto di cui si parla è lo ‘iupa’, il palo, una cosa dotata di un potere enorme e terrorizzante, una potenza tremenda che spaventa tutti. La storia è questa ed è completamente diversa da quella che ci hanno sempre raccontato in Occidente: una volta gli animali camminavano eretti, poi un giorno d’improvviso videro lo iupa, che era stato voluto dagli dei per impiccarli e che rappresentava l’asse terrestre. Tutti gli animali si terrorizzarono e, pieni di paura, iniziarono a camminare a quattro zampe.

Ilaria Campodonico