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Bauhaus – In the flat field

musica 123 - bauhaus

Quando la voce è l’anima della band

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Non è assolutamente raro nella storia della musica – e nel rock in particolare – trovare gruppi la cui immagine è spesso costruita attorno alla figura del cantante, il messaggero della poetica della band, la rappresentazione di tutto ciò che il pubblico potrebbe essere (se non tutti suonano, sicuramente tutti cantano) ma non riesce, o non vuole pubblicamente essere: in molti avranno avuto una voce migliore di Johnny Rotten, ma non il suo carisma, o la sua enorme irriverenza; e sicuramente in pochi avranno la voce di Robert Plant, o la potenza di Freddie Mercury, o le doti di Micheal Jackson nel ballo. E sicuramente in pochissimi hanno saputo avere il teatro in bocca come Peter Murphy, voce e leader dei Bauhaus, che sia nella dimensione live che in quella dello studio di registrazione (accompagnato dalle ritmiche ossessive del gruppo e dai suoni cupi, acidi e dissonanti) proiettava lo spettatore in un lugubre viaggio nel Circo degli Orrori del rock. Pienamente inseriti, sia dal punto di vista temporale che in quello stilistico, nel filone dark-punk inglese della fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80, i Bauhaus (e Murphy nel particolare) hanno il merito di essere riusciti a scavare nel lato più grottesco della musica dark, mischiandola al glam e caricandola così di un’enfasi esagerata, riuscendo a divertire il pubblico con visioni demoniache di paure che si perdono nella notte dei tempi, sfuggendo ai cliché del gruppo (e del cantante) cronicamente depresso. L’album d’esordio “In the flat field” alterna momenti di puro punk-rock (Dive) ad episodi glam (God in an alcove), passando per brani dal sapore elettronico (Spy in the cab) fino a vere e proprie soundtracks per sabba di streghe, demoni e folletti al chiarore di una pallida luna (Nerves): Nosferatu di Murnau inciso su vinile.

Flavio Talamonti