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Beck – Mellow Gold

1994. Beck Hansen, reduce da un fitto lavoro underground di EP e live, debutta sulla major Geffen con “Mellow Gold”, considerato il vero e proprio esordio dello strambo cantautore americano. Inquietante frullato, pasticciato ad arte tra passato e presente come la stramba creatura che anima la copertina allucinata e quasi luciferina. La figura di Beck è l’emblema del “Loser”, al contrario però di quanto possa apparire, egli è un vulcano di talento, inventiva e genialità. La sua miscela musicale mescola folk, blues, hip hop e ritmi latini in uno stile assolutamente personale e pazzoide. “Loser”, primo di dodici brani, arieggia già a suon di manifesto con la sua gioia apatica di esser perdenti ed esserne orgogliosi. Un sottofondo neo-folk macchiato di elettronica, effetti bizzarri e umoristici accompagnano la nuova celebrazione dello sfigato che diventa figo. “Pay no mind” è un folk sommesso molto low-fi, con tanto di armonica e nichilista disillusione urbana. Vagherà per tutto l’album un’aurea di blues affiancata da un prelibato avvicendarsi di furiose sortite di elettro-metal in “Soul Suckin’ Jerk”, di venature gospel, folk-beat pseudo-esistenziali in “Truckdrivin’ neighbors downstairs”, di ballate da piantagioni di cotone, ma ambientate in un futuro prossimo in “Whiskeyclone, Hotel City 1997”, di death-industrial lo-fi in “Mutherfuker” e molto, molto altro. Il finale di questo capolavoro è affidato al folk maestoso di “Blackhole”, intessuto di eleganti arabeschi di chitarra, con la solennità di una preghiera pagana e la traccia fantasma, il lamento di un Commodore 64 impossessato e schiacciato in una pressa. Beck non ha bisogno di categorizzazioni e “Mellow Gold” è un piccolo, sfacciato e spontaneo capolavoro anni ’90.

Guido Carnevale

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