Una pietra miliare nella storia dei dischi rock italiani
Le cause del cronico ritardo della musica nella nostra penisola rispetto agli sviluppi sonori che caratterizzano il mondo della musica anglosassone è da sempre cosa nota. Meno noti (o forse meno evidenti) sono i motivi di tale ritardo: diffidenza verso quel mondo tutto sommato ancora così diverso da noi? Attaccamento ottuso alla nostra tradizione musicale, così di valore ma poco propensa alle commistioni con altri generi e influenze? Necessità di tempo per assimilare la lezione angloamericana e farla nostra? Incapacità dell’industria di scovare i talenti, incapacità dei musicisti nel farsi scoprire, o semplicemente l’incapacità di entrambi? Certo è che se ci sono state notevoli eccezioni a questa letargia italica, sono spesso arrivate con diversi anni di ritardo rispetto agli sviluppi esteri: basti pensare agli esordi di CCCP e Litfiba, di altissimo valore, ma in ritardo di cinque-dieci anni rispetto al mondo anglofono. I Marlene Kuntz furono in leggera controtendenza rispetto ai loro illustri predecessori: il loro album d’esordio, “Catartica”, vide la luce nel 1994, all’inizio della fine dei movimenti grunge e noise, e poteva ancora confrontarsi “in diretta” con quei gruppi che avevano ispirato la band di Cuneo, e a farli inoltre scoprire ancora meglio al pubblico italiano. Con “Catartica” molti vennero per la prima volta a conoscenza dell’esistenza dei Sonic Youth (uno dei capolavori del disco, “Sonica”, si rifà nel nome e nello stile direttamente a loro) e dei Pixies, e di tanti altri gruppi che hanno nutrito il panorama underground internazionale. I Marlene Kuntz hanno avuto il merito di unire questi aspetti con le tradizioni melodica e della grande scrittura italiana, dando vita a capolavori come “Nuotando nell’aria” e “Festa mesta”. Indubbiamente una pietra miliare nella storia dei dischi rock italiani.
Flavio Talamonti