Con Bringing It All Back Home nel 1965 Bob Dylan iniziò ad affacciarsi al Rock utilizzando, per la prima volta, la chitarra elettrica. Fionn Regan ha impiegato molto meno tempo a fare questo “passo” e già al secondo disco si presenta con quattro canzoni, che aprono l’ album, in pieno stile rock‘n’roll. Non c’è spazio in “Shadow of an Empire” per l’intimità esagerata e quasi depressa che aveva mostrato nel primo lavoro, “The End of History”, tanto da meritarsi l’ingombrante paragone con Nick Drake. Della voce leggera, quasi sussurrata accompagnata da un elegante fingerpicking o da dolci ritmiche è rimasto ben poco. Di ritorno dal tour americano si dice che Regan si sia chiuso in una fabbrica abbandonata nella sua Bray, vicino Dublino, con qualche strumento di fortuna e abbia registrato questo secondo disco tutto in presa diretta, comprese le voci, senza particolari fronzoli. In effetti, leggende a parte, quello che si ascolta in Shadow of an Empire è un Rock ruvido, ritmato che, specialmente nella prima parte, ci riporta alla mente le colorate e movimentate balere anni ’60 in cui regnavano i Beatles. Nella seconda metà del disco Regan è di nuovo story-teller alla Bob Dylan e la chitarra acustica ritorna ad essere lo strumento principale con il tono della voce più dimesso ed acuto come si addice al genere. I paragoni con artisti del passato si sprecano, in Regan c’è un po’ di tutto quello che ha contraddistinto gli anni ’60, ci sono i primi Beatles, c’è il Dylan elettrico, qualcosa di Elvis e naturalmente tutti i cantastorie alla Neil Young, Leonard Cohen e Nick Drake. Ma Fionn Regan è grande non perché richiama musicisti del passato ma perché è capace di farvi ballare con Protection Racket, riflettere con testi come Shadow of an Empire e commuovere con Lord Help My Poor Soul, il tutto in poco più di mezzora. In assoluto uno dei più grandi talenti musicali degli ultimi anni.
Simone Brengola