
C’è una nebbia liquida che avvolge Solid Air, un disco che sembra galleggiare tra mondi diversi: il folk e il jazz, la psichedelia e il blues, la notte e l’alba. John Martyn lo pubblica nel 1973, all’apice di una stagione creativa feroce, ma ancora lontano dal baratro autodistruttivo in cui finirà anni dopo. È un disco fragile, come lo era lui: spesso ubriaco, sempre in bilico, con la voce che sussurra invece di cantare, e una chitarra trattata come uno strumento impressionista, fatta di echi, delay, vibrazioni.
Il pezzo che apre il disco “Solid Air” è una dedica implicita a Nick Drake, l’amico silenzioso che scivolava lentamente nell’ombra. La canzone sembra fluttuare su un pavimento che non c’è più: bassa, ipnotica, come suonata alle quattro di mattina davanti a un camino spento. Da lì in poi, il disco si apre e si richiude come un sogno inquieto: “Over the Hill” corre libera su colline scozzesi, “I’d Rather Be the Devil” (reinterpretazione di Skip James) diventa una jam acida sospinta da un groove minaccioso.
Martyn era un outsider, troppo jazz per i folkster, troppo soul per i puristi. Ma in Solid Air riesce nel miracolo: rende tangibile l’invisibile. È un disco che non ha tempo, che non cerca l’attenzione, ma che si insinua piano e poi resta. Eppure, sotto quella foschia c’è una tensione costante, una vulnerabilità che pulsa in ogni brano. È come se Martyn cercasse una forma di redenzione impossibile, un equilibrio che sa di non poter mai raggiungere. Solid Air è il suo modo di restare a galla, almeno per un po’.
Riccardo Davoli