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Joy Division – Unknown Pleasures

Può un gruppo con all’attivo solo due LP lasciare nella storia della musica una traccia talmente indelebile da non essere semplicemente ricordata ma continuamente citata, consapevolmente e non, in tanto rock e pop successivo?
Ci sono riusciti i Joy Division con due capolavori, Unknown pleasures (1979) e Closer (1980), che hanno musicalmente contribuito ad accompagnare il post-punk nel dark e nella new wave, e hanno culturalmente creato il mito di Ian Curtis, vocalist della band, e delle sue liriche disperate e disperanti, definitive nella loro lucida mancanza di speranza.

In particolare, Unknown pleasures è ancora più di Closer la summa di tutte queste caratteristiche: più intriso di sonorità punk rispetto al suo successore, trova nei testi di Curtis una disperazione nervosa e nevrotica, patologica, ma che non è ancora del tutto sfociata nell’estrema rassegnazione e abbandono – e nel suicidio di Ian Curtis, avvenuto il 18 maggio 1980 – che è possibile trovare nei testi di Closer.

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Insieme alla voce di Curtis, la ruvida chitarra di Bernard Sumner, il basso ipnotico di Peter Hook e la trascinante batteria di Stephen Morris offrono all’ascoltatore un vero capolavoro, una sorta di viaggio di iniziazione, talmente cupo e profondo nella sua progressione, da non porre mezze misure in un eventuale giudizio: i Joy Division possono essere solo amati o odiati, senza vie di mezzo. Fin dalla prima traccia, Disorder, passando per tutte le altre nove perle dell’album (una su tutte, il capolavoro dark New dawn fades), Unknown pleasures scava nelle profondità dell’anima, con una potenza fatta di fascino e pericolo. Da scoprire o riscoprire.

Flavio Talamonti