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Kevlar Project

kevlar2014

I solidi fantasmi della mente

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Questa… Questa me la raccontavano alle elementari. Dunque, ci sono due topini che guardano il cielo in una notte d’estate. Passa un pipistrello e il primo topo dice all’altro: ‘Guarda! Un angelo!’. Dopo tutto questo tempo forse ho capito che voleva dire davvero quella storiella. E cioè che, per quanto schifo faccia la tua vita, puoi comunque sognare di avere un paio d’ali e di volare. Solo che la parte più difficile rimane staccarsi da terra”.
Walter (Valerio Mastandrea) in Tutti giù per terra di Davide Ferrario, 1997

Non sono credente. O meglio, lo sono. Ma non nel Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e così via. Ma se lo fossi mi esalterei (come già faccio, del resto) con Gesù che nel tempio di Gerusalemme si indigna per la presenza di mercanti e cambiavalute e rovescia i loro banchi. Questo perché trovo particolarmente significativi i due lati della vicenda: l’umanità dell’ira, a cui difficilmente si può venire meno, quando la causa scatenante ci è particolarmente odiosa (tralasciando per un momento se la causa sia essa virtuosa o no); e il divino dell’indignazione, quel magico sentimento che forse non ci farà compiere l’azione più saggia o più placata, ma sicuramente la più sentita. Da quando la rabbia è appannaggio dei talk show televisivi, della cronaca efferata dei telegiornali e delle oche che si tirano i capelli in case e isole piene di telecamere (qualunquismo, questo sconosciuto!), essa ha perso quell’aura romantica di chi la utilizzava in senso creativo e costruttivo, di chi riusciva a farne il motore scatenante di un viaggio magari votato al fallimento, ma pur sempre gran portatore di una carica di energia costantemente in bilico tra la costruzione e la distruzione. Al di fuori dei contesti sopra citati la rabbia è diventata nichilismo, violenza insensata, frustrazione: un’umana valvola di sfogo, espressione di potenza, ridotta nei suoi tratti più squallidi, svuotata di senso e dei sogni ai quali attaccarsi per riuscire a spiccare veramente il volo. I Kevlar Project hanno trasformato anch’essi la loro rabbia, ma l’hanno fatto in un modo molto più intelligente e sentito nel loro disco “Il fantasma nel mio orecchio”: figli dell’hardcore, del punk, del crossover e del post punk, il trio romano ha creato un sound compatto fatto di suggestioni potenti, ma mai aggressive, sempre misurate ma mai represse. L’istintualità tipica dei loro generi di riferimento è in parte raffreddata, ma allo stesso tempo molto più raffinata, conscia di non dover buttare in faccia allo spettatore nulla di crudo, ma di dovergli e volergli mostrare qualcosa da dire, attraverso temi non originali ma trattati in maniera inedita, e con arrangiamenti molto interessanti, capaci di coniugare un’ottima tendenza pop alla loro potenza. Sì, perché rabbia contenuta non è, per loro, sinonimo di mancanza di potenza: i Kevlar Project sanno “pestare” come si deve, senza mai sacrificare la loro capace e solida scrittura ad un inutile manierismo punk-rock. I Kevlar Project sanno staccarsi da terra con la loro musica, rimanendo saldi alla loro sostanza e alla riuscita alchimia tra loro.

Brano da ricordare: Las Vegas

Flavio Talamonti