
Lamante, alias Giorgia Pietribiasi, debutta con In memoria di, un album che trasforma ricordi e traumi familiari in undici canzoni, cronaca e poesia. Dall’infanzia tra le montagne vicentine all’approdo a Milano, racconta venticinque anni di vita. C’è la bambina che si addormentava con i CCCP e scriveva versi a scuola, e poi la ragazza che lasciava i campi veneti, dove tirava su patate e mungeva vacche, per reinventarsi.
L’album è un atto di riscatto personale e familiare, una narrazione finalmente affidata alle donne. Tra le figure centrali, la zia morta per overdose negli anni Settanta, simbolo di una ribellione soffocata da un contesto patriarcale. “Questo disco è importante: qui finalmente parlano le donne”, spiega Lamante.
Prodotto da Taketo Gohara, il progetto è frutto di tre anni di lavoro e una selezione tra cento brani scritti in un periodo creativo quasi ossessivo. Gohara, noto per collaborazioni con Capossela e Verdena, ha scovato Lamante ascoltando una demo registrata con GarageBand. “Pensavo fosse uno scherzo”, racconta lei. Da quel momento ha costruito un suono autentico, registrato in presa diretta con amici di lunga data.
I brani intrecciano memorie personali e collettive: il sesso come dipendenza, il corpo tra prigione e rifugio, l’amore inquieto. Canzoni come “Non chiamarmi bella” e “Rossetto” sono manifesti di una femminilità libera dalle etichette. Il disco è anche politico: “Crescere significa imparare a perdere come un contadino che accetta di seminare e perdere parte del raccolto”, dice Lamante, ispirandosi alla filosofia del nonno.
La copertina, con una foto di Lamante bambina e una stella rossa sul cappello, e il video di lancio, dove donne leggono storie di libertà in un cimitero, rafforzano l’immaginario potente dell’opera.
Con il featuring su “Duri come me” di Levante e un secondo album già in lavorazione, Lamante guarda avanti. La bambina della copertina? “Forse sarebbe incazzata, forse stupita. Ma ormai non esiste più: l’ho persa facendo questo disco”.
Riccardo Davoli