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Lou Reed-Berlin

Diciamolo subito senza troppi fronzoli: Berlin è un capolavoro, ma necessita di tempo per essere veramente assimilato. Nell’anno della sua pubblicazione, il 1973, fece parlare di sé ma passò in sordina; addirittura c’era chi dava per finita la vena compositiva ed il successo di Reed, per poi ovviamente ricredersi anni dopo, annoverando giustamente Berlin come una delle più grandi opere del rock. Le aspettative del pubblico erano ovviamente verso un sound più fruibile, come il disco precedente, che però per ammissione dello stesso cantautore era stato un po’ forzato per sfondare sul mercato, mentre il lavoro di cui andiamo a parlare è cupo, oscuro, intriso di malinconia e di quella angoscia che entra nell’anima dell’ascoltatore. Un concept, una rock opera oscura e drammatica, introspettiva, perché attraverso la storia narrata l’artista proietta il suo stato d’animo attuale, già minato da alcol e droghe e da una vita sentimentale burrascosa. Perché Berlino? Perché Berlino era proprio l’assurdo simbolo di una divisione ancora più assurda, in cui viene narrata la vicenda immaginaria di Jim e Caroline, una coppia disastrata e disgraziata, che vive nel tunnel della droga e della violenza, a cui vengono sottratti i figli dalle autorità e che culmina nella maniera più tragica: il suicidio della ragazza. La musica che sorregge il tutto è semplicemente grandiosa, di gran lunga il meglio mai prodotto dal Reed solista. Orchestrazioni sontuose in “How do you think it feels”, blues mitteleuropei in “Berlin”, frammenti prog in “Lady Day”, derive jazz in “Oh Jim”, r’n’b in moviola in “Men of good fortune”, strazianti ballate in “The Bed” e “The kids”, fino al delirio di “Sad Song“. Opera di grande influenza, da cui hanno tratto ispirazione generazioni d’autori, difficile e poco commerciale, ma semplicemente sublime.

Guido Carnevale

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