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No Means No @ Init Club (28/11/2012)

Due anni fa vidi per la prima volta i fratelli Wright e Tom Holliston sempre a Roma in un locale “molto vicino” all’Init. Ricordo che fu un concerto entusiasmante: dopo tanto ascolto da CD finalmente potevo godere di un esibizione dal vivo del trio canadese che venne definito da qualcuno come “i Devo in un viaggio jazz, i Motörhead dopo la scuola d’arte o i Wire sotto steroidi psicotici”.

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Non potevo mancare quindi a quest’evento che ha visto un locale come l’Init, da sempre rinomato per la gagliarda programmazione, ospitare i NoMeansNo e il loro insano punk rock, oltre che dare riparare dal mal tempo scambiato dai più come “l’anticipazione della fine del mondo”.
Ciò che ti fa innamorare di questo gruppo sono a mio modesto parere 3 fattori:
1) Il loro essere esponenti di quel punk (tra l’hardcore e il punk rock) anni ’80, grigio, spesso politicizzato e teso a diventare “altro” rispetto al punk dei primi tempi;
2) Il loro amalgamarsi musicalmente con sonorità vicine al jazz e al prog;
3) L’oltrepassare, da parte dei loro testi, di quella banalità così a lungo ricercata del punk e divenire invece lama affilata dall’ironia, dal cinismo e dallo squilibrio.
Detto questo, come puoi non amarli almeno un po’? A meno che non ti ecciti con la musica neomelodica, non possono lasciarti indifferente gli arrangiamenti dei pezzi, i testi, gli stacchi così precisi, così compatti.

Sul palco dell’Init la loro esibizione segue quella altrettanto ottima degli Ay, romani, avanguardisti, spaziano tra il jazz e il folklore sudamericano con basso batteria e sax. Mandano in trance l’intera sala, con una partenza delicata per giungere ad un finale a dir poco selvaggio.
Ed è più o meno la stessa storia per i NoMeansNo che propongono quasi tutti i loro pezzi migliori tratti da “Wrong”, ma anche da “Sex Mad”, eseguono anche la splendida “The World Wasn’t Built In A Day”. Si incazzano un po’ per via del microfono che non funziona, ma sembrano quasi prendere per il culo quegli atteggiamenti tipicamente punk come le urla e i calci alle aste. Rob Wright se la gode come un pazzo(forse è pazzo!), Tom Holliston è un nerd sui 40 che ad un certo punto sente freddo e si va a mettere la felpa (ah si, adora giochicchiare con il delay!) e John Wright gioca con la ritmica ammiccando ai tempi dispari e ad un andatura apparentemente storta, ma precisa come una catena di montaggio.
Ora però vorrei sapere, e sono certo di non essere l’unico, perché diamine non hanno suonato “I’ll Catching Up!”: uno dei brani che adoro in assoluto. Un pezzo che ha un riff/ritornello semplice quanto geniale.
Ma poi del resto, che importa? Le orecchie hanno comunque goduto di cotanta magnificenza!

Marco Casciani