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Remain in light – Talking Heads

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Non è raro, nella storia della musica, trovare album d’esordio folgoranti.

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Più raro trovare gruppi o artisti singoli capaci di mantenere un livello qualitativo abbastanza alto nell’arco della loro intera carriera. Quasi impossibile trovare chi, per uno smisurato talento o per una ispirazione di carattere più o meno divino, riesca a infornare diversi capolavori nell’arco di pochi anni. Nel quadriennio 1977-1980 ci sono riusciti i Talking Heads, con quattro album (’77, More songs about building and foods, Fear of music, Remain in light), capaci di entrare senza alcuna fatica nell’Olimpo del Rock. In particolare l’ultimo album di questa tetralogia della perfezione, Remain in light, è un disco magnifico, una trappola ipnotica di ritmo, suono e bellezza, nella quale David Byrne (leader dei Talking Heads) ed il produttore Brian Eno mischiano funk, reggae, new wave, dark a possenti sezioni ritmiche, acidi riff di chitarra, fiati e sintetizzatori capaci di evocare mondi diversissimi, dai paesaggi urbani alla giungla profonda, dal deserto alla discoteca. Remain in light è ancora, dopo 33 anni dalla sua uscita, capace di folgorare al primo e ad ogni successivo ascolto: immerge in atmosfere da sogno che portano con sé mondi sintetici e spettrali, dalla disturbante Born under punches alla martellante Crosseyed and painless, dai richiami metropolitani e tribali della straordinaria The great curve (forse il pezzo migliore del disco) alla celeberrima Once in a lifetime, dove David Byrne declama in un recitato dal sapore folle le idiosincrasie derivanti dalla vita moderna sopra un riuscitissimo matrimonio tra basso e batteria. Come in una sorta di immaginario pellegrinaggio alla Mecca, Remain in light andrebbe ascoltato da chiunque almeno una volta nella vita.

Flavio Talamonti