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No alle bombe a grappolo

Ratificata anche dall’Italia la Convenzione di Oslo per l’eliminazione delle bombe a grappolo.


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Nel 2008 ad Oslo buona parte della comunità internazionale ha firmato un impegno di civiltà. Venne definito un passo verso un disarmo reale e generale. A 3 anni dalle prime firme della Convenzione per l’abolizione delle cluster bomb (bombe a grappolo), anche l’Italia ha finalmente ratificato il documento, già in vigore dal 1 agosto 2010 grazie alla ratifica del Burkina Faso e della Moldova. La copertura mediatica su questo evento, così importante per il nostro paese, è stata bassissima mentre la ratifica era oramai attesa da tempo dagli addetti ai lavori, dagli attivisti e da chi si interessa di diritti umani. Un iter travagliato quello della ratifica italiana, la Convenzione nelle sue stesse norme applicative lascia ai paesi firmatari il compito di includere le norme convenzionali nell’ordinamento nazionale e l’UE ha più volte raccomandato una ratifica tempestiva. Dal 19 maggio, giorno dell’entrata in vigore della legge in Italia, nel nostro paese non si potranno più costruire, vendere, o addirittura stoccare questo tipo di ordigni. Solo una piccola parte delle nostre scorte verrà preservata e impiegata per le esercitazioni di sminamento, attività che è tutt’ora svolta dai militari italiani in Libano. Non basta infatti decidere di non produrre più le cluster e di distruggerne le scorte per eliminare il pericolo derivante da questi ordigni. A differenza delle normali testate spesso non esplodono all’impatto, sono invece sganciate in grande quantità in modo da ricadere su un’ampia porzione di territorio, rimanendo inesplose in attesa di essere attivate dal passaggio del nemico. Ma se il nemico non dovesse passare? Se il conflitto terminasse domani? Abbiamo imparato che le bombe, anche se intelligenti, spesso sono studentesse disattente, figuriamoci allora cosa può provocare uno strumento ottuso, che rimane in attesa di un soldato senza saperlo distinguere da un animale, da un passante o da un bambino.
L’ International Landmine and Cluster Munition Monitor nel 2010 ha pubblicato uno studio secondo il quale il numero di vittime provocate da questi ordigni dal 1965 ad oggi si aggirerebbe fra 58.000 e 85.000, il 98% delle quali fra i civili. La difficoltà nel reperire dati certi è dovuta principalmente alla mancata assistenza delle vittime, spesso in luoghi difficili da raggiungere o in paesi senza adeguate strutture sanitarie. Un bambino che gioca a pallone, un vecchio che porta gli animali al pascolo o una donna intenta a procurarsi l’acqua; sono queste le vere vittime delle cluster, i militari o le milizie sono oramai addestrati a riconoscerle e ad evitarle. L’impatto di questi ordigni, soprattutto negli anni successivi ai conflitti, si fa sentire anche dal punto di vista dello sviluppo sociale ed economico. La loro presenza in molti casi impedisce l’utilizzo di campi per il pascolo, l’agricoltura, o l’accesso a risorse fondamentali allo sviluppo e alla ricostruzione. Molte case produttrici indicano una percentuale di mal funzionamento delle cluster in circa il 5% dei casi. Nonostante questo è stato calcolato che nel recente conflitto nel Sud del Libano la percentuale di malfunzionamenti è salita al 40-55%, disseminando sul territorio libanese migliaia di ordigni inesplosi. Ma il problema non è solo del Libano, molti altri paesi già teatri di sanguinosi conflitti condividono lo stesso problema: Laos, Vietnam, Kosovo, Cecenia, Afghanistan, Iraq, Eritrea, Etiopia e Sahara Occidentale, solo per citare i più conosciuti.
Il deputato del PD Andrea Sarubbi promotore di un ddl per migliorare il testo della legge di ratifica, in un articolo apparso su Repubblica.it il 19 maggio 2011 ha posto alcune questioni fondamentali, analizzando le lacune della normativa approvata dal Parlamento italiano. La proposta è stata presentata raccogliendo 86 firme fra i vari schieramenti politici e con l’interessamento del Ministero degli Esteri; nonostante questo il deputato del PD ha rilevato la poco disponibilità della Difesa alla collaborazione sul progetto. Le lacune individuate nel ddl da Sarubbi sono state inserite come emendamenti, poi bocciati dalla maggioranza che li ha però accolti come raccomandazioni dopo la loro presentazione sotto forma di ordine del giorno da parte del deputato del PD. I problemi posti sul tavolo del Governo sono molti: tra tutti i finanziamenti necessari al risarcimento delle vittime delle cluster (sarebbero necessari 2 milioni di euro), che non sono stati inseriti nella legge. Altro elemento fondamentale è la denuncia dei brevetti italiani per la costruzione di questo tipo di ordigni. Una pratica non nuova nell’ordinamento italiano, che infatti include questa possibilità da 14 anni, dopo la firma della convenzione di Ottawa per l’eliminazione delle mine anti-uomo. L’elemento brevettuale è di primaria importanza: se infatti è negata la possibilità di vendita di cluster nel nostro paese, nulla vieta di vendere il brevetto per la costruzione a paesi non firmatari della Convenzione di Oslo. Tra questi troviamo sia paesi che non avrebbero alcun difficoltà tecnologica a produrre questo genere di ordigni come Stati Uniti, Russia e Cina, ma anche molti governi che sarebbero ben felici di acquistare questi mezzi. Altro elemento riguarda gli investimenti e i finanziamenti a società straniere. Nessun controllo è stato previsto nei confronti di società e di privati che investono in produzioni di società estere impiegate nella fabbricazioni di cluster. La vigilanza su questo tema è essenziale secondo Sarubbi, il quale intende lavorare perché le questioni riguardanti le cluster non cadano nel dimenticatoio. La ratifica italiana è certamente un passo in avanti verso il disarmo, ma su una strada lunga e non ancora condivisa da tutti.

Leonardo Mancini