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I migliori libri di Massimo Bontempelli

Passato alla storia soprattutto grazie alla sua produzione teatrale, e sconosciuto ai più, Massimo Bontempelli fu un pioniere della letteratura contemporanea. È suo, infatti, il merito di aver introdotto, in Italia, il genere del realismo magico, che poi avrebbe conosciuto una più larga fortuna oltreoceano con Gabriel García Márquez. Nella sua complessa idea di “romanzo del Novecento” convogliano tantissime teorie filosofiche e tendenze letterarie: tra tutti, il vitalismo di Nietzsche e le avanguardie del primo Novecento (soprattutto il surrealismo).

Obiettivo della poetica bontempelliana è «creare i miti nuovi», personaggi strettamente aderenti alla contemporaneità che possano diventare emblemi immortali alla stregua di quelli greci. Sviluppa così una narrazione che prende spunto dal mondo quotidiano (realismo) e, una volta sottoposta al processo di trasfigurazione artistica, acquisisce la capacità di modificare il reale (magico), creando una verità alternativa (mitopoiesi). Per dare avvio a questo processo, però, c’è bisogno innanzitutto di recuperare la propria facoltà immaginativa, cioè la capacità di meravigliarsi.

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La vita intensa (1919) e La vita operosa (1921)

Si tratta dei due romanzi d’esordio di Bontempelli, non ancora propriamente ascrivibili alla poetica del realismo magico. Le due opere, pur essendo autonome, sono contigue e complementari, perché ci mostrano lo stesso uomo alle prese, rispettivamente, con una vita dedita all’otium (alla contemplazione filosofica) e con quella impegnata nel negotium (all’attività lavorativa).

La figura di Bontempelli personaggio, protagonista degli eventi, è intrisa dell’inettitudine che accomuna gli altri grandi narratori della sua epoca. Massimo si lascia travolgere dal flusso di modernità, dominato dall’imperativo del guadagno e della fretta accumulatrice, giungendo sempre a risultati inaspettati, paradossali, buffoneschi. La potente ironia del narratore sta nel suo prendere sul serio qualunque circostanza, lasciando emergere la totale inconciliabilità tra il suo modo di pensare e lo spirito del tempo.

La scacchiera davanti allo specchio (1922)

In questo romanzo di semplice lettura, apparentemente per ragazzi, l’ironia dello scrittore diventa ermetica, quasi allegorica. La vicenda è quella di un bimbo di dieci anni che compie un viaggio all’interno di uno specchio, interagendo con gli oggetti che vi sono riflessi e sconfinando in un altro mondo (impossibile non vederci L’Alice di Carrol). Con questo espediente l’autore riesce, da un lato, a screditare la storia dell’umanità, ammettendo il trionfo del caso. Dall’altro, fa emergere la imperante divinizzazione degli oggetti della modernità.

Così facendo, inverte l’ordine delle categorie platoniche e istituisce un anti-mondo delle Idee, in cui l’uomo viaggia in discesa verso l’apatia e l’amoralità: «io, essendo manichino, sono l’oggetto per eccellenza: l’oggetto, tant’è vero, sul quale gli uomini e le donne cercano di modellarsi, per sembrare manichini anche loro. Naturalmente non ci riescono mai del tutto, c’è sempre qualcosa che sopravanza». A dir poco attuale, no?

Il figlio di due madri (1928)

Mario, bimbo di famiglia borghese, un giorno si sveglia con la coscienza di Ramiro, scomparso proprio il giorno della nascita di Mario. Così, riuscendo a tornare da sua madre Luciana, avviene il miracolo che la relazione tra i due riprenda da dove si era fatalmente interrotta. Ovviamente però, si apre una disputa tra le due madri che troverà una tragica conclusione. Nel racconto prevale un’atmosfera onirica, ricreata dalle analogie cronologiche, dall’uguaglianza anche fisica dei due bambini, dallo strano rapporto di compassione-rivalsa tra le madri. Le due sono profondamente diverse: l’una, Luciana, è folle di gioia e dimostra una cieca fede in questo evento impossibile, anche se tutti la credono pazza. L’altra, Arianna, è la classica donna borghese che cerca affannosamente una spiegazione razionale dell’accaduto. La sua pecca più grande, nonché sua condanna, agli occhi dell’autore, è proprio la mancanza di immaginazione.

Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930)

Adria è una donna meravigliosa da cui tutti sono affascinati. La sua volontà di preservare la sua bellezza la porta a dedicarsi esclusivamente alla cura del proprio aspetto, al punto da incontrare i propri figli solo una volta a settimana, e a distanza. In questa scelta è presente, ovviamente, una critica implicita, ma anche della stima nei confronti della forte volontà della donna, risoluta e imperterrita, costi quel che costi. I bimbi, perdutamente innamorati della madre per ovvie ragioni, vivono l’infanzia nell’attesa di incontrarla. Persino una volta separatisi da lei, continueranno a vivere di quella vocazione, che determinerà in entrambi i casi i loro destini.

Gente nel tempo (1936)

È questo un romanzo meraviglioso, alla stregua delle opere di Marquez o di Saramago. Proprio come ne Le intermittenze della morte di quest’ultimo, infatti, la morte acquisisce potere decisionale e non sopraggiunge più a caso, ma “avvisa” le sue prossime vittime. La consapevolezza dello scadere del tempo a disposizione regala a questi personaggi la possibilità di vivere appieno la vita che resta loro, considerandola un dono, anziché qualcosa da dare per scontata. L’invito implicito dello scrittore è quello di seguire l’esempio, perché la limitatezza dell’esistenza è ciò che le dà valore.