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Marco Mancini: la poesia delle piccole cose

Marco Mancini cover

Musica, un nuovo articolo della Rubrica Rumori di Fondo

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Cercate di conservare sempre un lembo di cielo sopra la vostra vita, fanciullo mio, aggiungeva voltandosi verso di me. Voi avete un’anima bella, d’una qualità rara, una natura d’artista, non lasciatele mancare ciò di cui ha bisogno” (Marcel Proust, “La strada di Swann”, primo volume della serie “Alla ricerca del tempo perduto”, 1913).

Per essere artisti, o più semplicemente per compiere un atto artistico, bisogna necessariamente pensare di avere qualcosa da dire. Lo sviluppo dell’opera prenderà poi la sua personalissima strada, crescendo in maniera più o meno indipendente dal pensiero originale dell’artista: ma la convinzione – espressa o meno – di avere qualcosa da dire, e di avere un estremo bisogno di farlo, è sempre presente. La questione è: di cosa parlare? Dei massimi sistemi, dell’amore, della quotidianità? Di tutte e tre le cose insieme? E, soprattutto, come? Spesso si dice che tutto sia già stato raccontato: allora forse vale la pena interrogarsi sul modo di raccontare, e sul fatto che in questa visione non conti più la capacità inventiva, quanto la propria volontà di contribuire in prima persona alla narrazione universale. In poche parole, quanto il nostro bisogno di narrare, di esprimerci, di esserci, sia più forte di qualunque cosa: Marco Mancini questo bisogno ce l’ha, e lo canta (e suona) forte e chiaro nel suo album d’esordio Punti di vista. Cantautore romano diviso tra la nostra città, l’Umbria, le Marche e l’Emilia-Romagna, Mancini canta di piccoli e grandi amori e disamori (Scusa Elena, Le rondini, Va tutto bene), ironizza sulla fatica nel provare a farsi strada nel mondo della musica senza scendere a compromessi (Io non sono bravo), ricorda con nostalgia un’infanzia che sembrava impreparata a scontrarsi con il mondo duro degli adulti, ma di cui ancora conserva il ricordo e i sentimenti di speranza (6 dicembre, il cui arpeggio principale sembra un riuscito omaggio a La domenica delle salme di Fabrizio De André), trasporta la realtà di provincia e la sua “inerzia forzata” – sintetizzate nel famigerato bar, punto di ritrovo cantato e trasfigurato nell’immaginario di decine di autori del nostro paese – nel mondo del blues e nelle sue sonorità più sporche (Mr Johnson), rivendica con accenni elettro pop il suo diritto a non rinunciare ai propri sogni nonostante tutto e tutti (la title track Punti di vista). Musicalmente l’intero disco è un riuscito esempio di musica pop che riesce a far proprie svariate influenze di generi e di artisti, e le sa padroneggiare senza virtuosismi, offrendo più di un episodio di arrangiamento che sa farsi amare fin dal primo ascolto (Fuoco sulla collina, con un testo suggestivo ed onirico, volutamente non collocabile temporalmente, accompagnato da atmosfere oscure, con arrangiamenti da ballata grunge e con sonorità vagamente anni 70; Oltre, una ballata leggera la cui parte strumentale sembra quasi una ninna nanna). Marco Mancini canta, scrive e suona delle piccole cose di tutti i suoi giorni, ed ha dato alle stampe un album così intimamente suo da riuscire a parlare – con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti – delle piccole cose dei giorni di tutti.

Flavio Talamonti