Dopo decine di anni di onorata carriera, il rock è morto. E, per molti, la sua dipartita è stata violenta, frutto di un colpo di arma da fuoco che il 5 aprile 1994 Kurt Cobain, leader dei Nirvana, sparò verso sé stesso nella sua casa sul lago Washington.
Questo uso metaforico e semplicistico della tragedia personale di Cobain si è radicato così in profondità in parecchia critica e in molto pubblico da spingere spesso gli uni e gli altri a ricercare, nelle uscite discografiche successive, una qualche traccia di una fantomatica “rinascita” del genere, perdendo di vista – a mio modestissimo parere – uno dei caratteri specifici del rock stesso: la sua innata poliedricità, e la sua conseguente capacità di adattamento e di reazione ai periodi di “stanchezza” o di “morte apparente”. A poco più di tre anni di distanza dalla morte di Kurt Cobain, esce “Ok computer” dei Radiohead, considerato quasi unanimemente uno dei dieci dischi più belli mai dati alle stampe. E allora due domande te le fai: cosa è veramente morto del rock, o lasciato morire? La capacità di innovazione? Eppure i Radiohead con dodici tracce sono riusciti, quando tutto sembrava perduto, a rinnovare il genere, e per certi aspetti quasi a rifondarlo: in gran parte dei dischi usciti immediatamente dopo “Ok computer”, e in non pochi di quelli che escono ancora oggi, si sentono fortissime le influenze del gruppo capitanato da Thom Yorke, diventato col tempo una vera e propria istituzione. E non sembrano morte neanche le capacità espressive musicali, i testi rivoluzionari nel lessico e nell’efficacia, le atmosfere che ti si fissano nello stomaco e non ti abbandonano più. In conclusione, ho fatto tutto tranne che recensire il disco: ero troppo impegnato a riascoltarlo. Il rock, anche grazie a questo capolavoro, è duro a morire.
Flavio Talamonti