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Il Patto: intervista a Nicola Biondo

B21 - il patto

Esce “Il Patto” di Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci, edito da Chiarelettere. Un coraggioso libro che attraverso la storia vera, straordinaria seppur poco conosciuta, di Ilardo, infiltrato in Cosa nostra dopo una vita da mafioso, illustra l’accordo tra Stato e mafia. Ne abbiamo parlato con uno dei due autori, Nicola Biondo.

Salve Nicola, la nostra prima domanda è molto semplice. Perché avete deciso di scrivere “Il Patto”? Come e quando nasce?

Io e Sigfrido Ranucci ci siamo innamorati della stessa storia, quella di Luigi Ilardo, e abbiamo provato a metterla in scena. Ilardo è stata la nostra lente di ingrandimento per raccontare il Patto, l’accordo tra stato e mafia. Chi è Ilardo bisogna dirlo perché è un nome sconosciuto ai più. È uno che nella sua vita è stato un importante mafioso in tutta la Sicilia orientale. Uno che la mafia l’ha respirata fin da bambino. Padre, zii, cugini: tutti mafiosi. Ilardo nel 1993 si trova in carcere e decide che di quella vita non ne può più. Si propone alle forze dell’ordine come infiltrato. È un caso unico. Viene fatto uscire di prigione e nel giro di pochi anni ottiene dei risultati eccezionali. Ilardo in poco più di due anni fa decapitare i vertici mafiosi in tutta la Sicilia orientale ed entra in contatto con Provenzano. Scambia con il boss decine di lettere fino ad incontrarlo in uno dei suoi rifugi. È il 1995. L’infiltrato passa tutte le informazioni a Riccio che le invia ai suoi superiori, il colonnello Mori e il maggiore Obinu. Informazioni che però non vengono utilizzate e il boss rimarrà libero fino al 2006. Ilardo parla anche in diretta, nel 1994, di un patto politico elettorale tra Cosa nostra e Forza Italia e fa i nomi degli insospettabili protagonisti di questo accordo. È il primo a fare ad esempio il nome di Dell’Utri. Alla fine Ilardo, nome in codice Oriente, viene però tradito da una talpa istituzionale e a quattro giorni dalla sua entrata nel programma di protezione finisce ucciso. La storia del mancato arresto di Provenzano oggi è il tema centrale del processo a Mori e Obinu in corso a Palermo. La vicenda di Ilardo ci ha permesso quindi di riprendere altri capitoli importanti: dalla mancata perquisizione del covo di Riina alle stragi del ’92-’93, dal ruolo avuto da Vito Ciancimino e suo figlio Massimo alla nascita della nuova mafia di Provenzano, dedita agli affari e non più stragista. La domanda di fondo è: è stata siglata una pax mafiosa? Molti fatti ci dicono di si. E questi fatti si trovano nel nostro libro, Il Patto.

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Scrivere un libro di forte cronaca e denuncia come questo è una scelta coraggiosa. Perché gli esempi di questo tipo sono ancora pochi? È per paura o, secondo lei, per un circolo di interessi che si allarga a dismisura, comprendendo anche l’informazione? E proprio l’informazione, in tutto questo, che ruolo dovrebbe avere? Anch’essa viene il più delle volte pilotata da meccanismi ostruzionistici?

Ho un’altra idea del coraggio. Si scrive per tanti motivi. Noi, io e Ranucci, siamo convinti che scrivere debba servire a comunicare una storia o un’emozione. Abbiamo raccontato una vicenda sconosciuta con l’ambizione di togliere il velo dell’illusione e dell’ipocrisia su 20 anni di mafia e antimafia. Se ci siamo riusciti saranno altri a dirlo. Non sono pochi gli esempi di giornalismo a schiena dritta. È difficile, certo, perché costa più fatica e non sempre si hanno gratificazioni. È vero però che sulle mafie non abbiamo più come in passato poca informazione, anzi forse ne abbiamo pure troppa e una parte di essa è inutile e dannosa. Un esempio? Dire che la mafia è alle corde perché si arrestano i grandi latitanti non è vero. La cattura dei boss è una delle condizioni ma non la sola per arrivare alla vittoria. La domanda è: cosa fa più danno? Un boss della mafia o un colletto bianco – un politico, un imprenditore – che si mette a disposizione dell’organizzazione? La risposta mi sembra ovvia ma non è così per tutti. È difficile fare capire al mondo dell’informazione che la mafia non è solo Palermo o Reggio Calabria o Napoli. È un sistema di potere che si espande e muta costantemente. Possiamo fare l’esempio di Roma e del Lazio. Si parla ancora della Banda della Magliana, ma ci sono due province, Latina e in misura minore Frosinone, che sono cadute sotto il dominio delle mafie decenni fa. Ma per la stragrande parte dell’informazione questo ha meno appeal della Magliana. Da qualche tempo si parla di trattativa tra Stato e mafia, è arrivato Massimo Ciancimino a raccontare la sua versione. Ma pochi sanno, perché i giornali non lo dicono, che il processo che lo vede testimone è quello a carico del generale Mori accusato di non aver arrestato Provenzano nell’ottobre del 1995. Mori conosceva l’ubicazione di un covo del boss sulla base di quanto aveva detto Ilardo che lì lo aveva incontrato. Eppure Mori e il suo nucleo non solo non lo arrestano ma non mettono sotto osservazione né il covo né gli uomini di Provenzano che lo frequentavano e che lo frequenteranno per altri 6 anni. Una stampa normale avrebbe fatto fuoco e fiamme su questa storia. Per molto meno Bruno Contrada, alto dirigente della polizia in Sicilia, è stato condannato a 10 anni per collusione con Cosa nostra.  

Come bisognerebbe agire per combattere la mafia? Qual è il punto di partenza? Denunce e testimonianze sono essenziali? Oppure bisognerebbe iniziare da un radicale cambiamento della mentalità delle persone?

La domanda dovrebbe essere rivolta ai politici, ai magistrati e alle forze dell’ordine. Ma una cosa è certa: la mafia vive di consenso sociale, in Sicilia e nel resto d’Italia. Finche ci sarà convenienza a rivolgersi al mafioso, da parte del singolo sia esso politico o imprenditore o privato cittadino, non ci sarà via di scampo. Se la mafia fosse stato solo un fenomeno criminale lo avremmo sconfitto da tempo. La mafia è un sistema di dominio di cui i boss non sono altro che i terminali ultimi. Pensiamo alla Magliana: se non avesse avuto le coperture di cui ha goduto sarebbe stata ben poca cosa. E invece la troviamo in mille storie “politiche”, dalla strage di Bologna al caso del banchiere Calvi alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Sotto questo profilo, il nostro sembra un Paese da romanzo, da noir.
Secondo lei, all’interno della struttura statale e sociale, esiste ancora una seria e pulita idea di legalità?
Assolutamente si. Anche se costa caro tante volte.

La mafia, o l’inclinazione a coprirla, ha un colore politico? Oppure è un fenomeno che va al di la delle ideologie?

Un tempo la mafia era molto anticomunista. Una scelta di campo precisa. Oggi è molto più laica. Perché la fine dell’ideologia comunista – la cui applicazione pratica ha fatto disastri – ha significato l’avvento di una politica dedita ai dogmi della religione e dell’economia. Ci troviamo di fronte ad una realtà che ci impone come unico orizzonte il guadagno e non il benessere. La mafia si è adeguata e fa affari con tutti. In Sicilia le cooperative rosse non sono state immuni da certi rapporti. Il Presidente Berlusconi dice che non bisogna parlare di mafia perché si fa una cattiva pubblicità all’Italia, ma questa è un’altra storia.

Lei crede che il problema “mafia” sia radicato nel nostro tessuto sociale, senza via d’uscita, o che prima o poi riusciremo a combatterlo definitivamente? Come vede il futuro dell’Italia da questa prospettiva?

Vorrei rispondere con una citazione del libro. Prima però mi sento di dire questo: per salvarci dovremmo riprendere ad usare una parola dimenticata, condivisione. O condividiamo i problemi e le sue soluzioni oppure non c’è scampo. “Questo è un paese violento. Abituato a non credere in se stesso, e dunque incapace di pretendere una classe dirigente all’altezza.
Viaggiamo nel buio, aspettando che degli eroi vengano a salvarci, a tirarci fuori dall’inferno: santi o rivoluzionari, generali o politici, magistrati o preti di periferia, poco importa. Che siano loro a sporcarsi nella battaglia, che siano loro a combattere in nome di tutti; e se cadono, li si celebri come martiri.
Ci sembra che in questo paese la guerra e la pace abbiano lo stesso indistinto colore, lo stesso odore. E che portino gli stessi identici lutti”.

Serena Savelli