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Beyoncé – Cawboy Carter

È tremendo quando una pop star del calibro di Beyoncé pubblica il suo nuovo disco, Cowboy Carter, e la polemica si riduce ad un pugno di dollari. Il clamore risuona dopo che alcuni fan hanno denunciato la mancanza di alcune tracce nella versione fisica del disco rispetto a quella digitale. Un atto così vile, secondo i fedeli alla dea, da organizzare una class action per richiedere il rimborso. ‘Il country è bianco!’, urlerebbe un americano medio dell’elettorato di Donald Trump. Tuttavia, abbiamo già avuto Tina Turner nel 1979 ed ancora prima Charley Pride, prima superstar afroamericana del country che nessuno sapeva essere nero finché si presentò su un palco a Detroit nel 1967 di fronte a 10.000 bianchi. La casa discografica si era guardata bene dal distribuire in giro le foto, lui disse soltanto: ‘Lo so che è strano venire a cantare a un concerto country con un’abbronzatura permanente’, e tutti risero, il che ci ricorda qualcosa di imbarazzante del nostro recente passato. D’altronde, il country stesso è un genere figlio del blues e quindi, sì, di matrice nera, ma che per una serie di coincidenze, incroci del destino, scelte di mercato e di comunicazione discografiche, dal dopoguerra è diventato ‘di bianchi e per i bianchi’, consolidandosi così in una specie di circuito autoalimentato. Cowboy Carter diventerà un classico e questo disco sta al country come The Miseducation of Lauryn Hill stava al neo soul.

Riccardo Davoli

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