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A Roma con l’ESADE si dibatte di Intelligenza Artificiale e big data

ROMA – Il 9 Maggio scorso ESADE, l’importante business school internazionale, ha organizzato a Roma un incontro ristretto sul tema dell’intelligenza artificiale e del big data. Relatore dell’evento è stato il professor Giulio Toscani, docente in ESADE e consulente di strategia digitale e nuove tecnologie, che ho avuto l’onore di affiancare in qualità di direttore di progetti in intelligenza artificiale e machine learning.

QUANTO È INTELLIGENTE L’AI?

Il punto di partenza: l’intelligenza artificiale non è poi così “intelligente” come immaginiamo, e neanche tanto “artificiale” perché deve essere sempre impostata dagli umani. Siamo lontani dall’immaginario fantascientifico, e più vicini alla logica, alla matematica e alla statistica. Tuttavia A.I. significa un enorme balzo in avanti rispetto al software tradizionale. Senza avere alcuna auto-consapevolezza, l’A.I. comunque affina da sola i propri algoritmi, cioè in qualche modo impara a livello logico-matematico e statistico e applica quanto calcolato.

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Dott. Eugenio Mealli

I risultati permettono agli umani di svolgere meglio le proprie attività, e anche di fare qualcosa di nuovo. In alcune situazioni la persona è semplice proprietario o utente di un sistema o un dispositivo basato su A.I., ma non partecipa attivamente al processo. È il caso delle applicazioni “autonomous A.I.”, attualmente limitate ad ambiti molto specifici anche se spesso molto innovativi, ad esempio la guida autonoma dei veicoli: lì l’umano è mero utente. Questa à la fattispecie che progressivamente fagociterà diverse occupazioni, come a suo tempo accadde nella prima industrializzazione, con i telai che ridussero drasticamente il numero di lavoratori impiegati nella tessitura.

LA COLLABORAZIONE CON L’UOMO

Una ventata di ottimismo arriva però dalle situazioni in cui uomo e macchina “intelligente” collaborano in un processo produttivo o simile. L’A.I. può essere utilizzata per assistere gli esseri umani e le organizzazioni in quello che già fanno, migliorando la performance del relativo processo, (“assist”) oppure può accompagnare le persone a fare cose nuove o in modo radicalmente diverso, spesso modificando il modello di business (“augment”).

Quando si dice che l’intelligenza artificiale può generare nuova occupazione, ci si riferisce non solo all’esplosiva richiesta di data scientist, A.I. engineer ed altri profili di sviluppo tecnico. Sono proprio le applicazioni di assisting A.I. e augmenting A.I. che valorizzano il lavoro umano e possono creare nuovi profili occupazionali al di fuori dell’informatica.

Dott. Giulio Toscani

AI E BIG DATA

Accanto al termine intelligenza artificiale troviamo spesso big data, un concetto anch’esso spesso abusato o associato solamente alle reti sociali su internet. È più corretto definirli come grandi volumi di dati che arrivano a velocità crescente da fonti diverse o comunque disomogenee. E se ci troviamo di fronte a una massa di dati disomogenei e con flussi rilevanti, possiamo dire di avere sicuramente un big data? Non sempre. Per valutare i dati bisogna sempre guardarli dal punto di vista dell’applicazione dell’A.I. Devo definire la missione che vorrei affidare all’applicazione, per esempio migliorare le terapie per una determinata condizione patologica, oppure incrementare i guadagni di alcuni operatori economici. Se la mia bella massa di dati disomogenei permette all’A.I. di compiere la missione, beh allora sì, ho davanti un big data.

Ci sono molti casi in cui all’A.I. è sufficiente una massa di dati aziendali, per esempio commerciali o tecnici, o comunque abbastanza omogenei, per creare valore. In quel caso ci troviamo nell’ambito delle applicazioni small data. Questa definizione però non deve indurci a pensare che l’A.I. possa funzionare su pochissimi dati. Ha bisogno sempre di un grande bacino di informazioni digitalizzate, che si chiamino big data o small data, per poter essere utile agli umani e per “imparare” sempre di più.

I dati che arrivano alle applicazioni di intelligenza artificiale devono però essere significativi e puliti. Anche qui la distanza dall’immaginario collettivo è grande. Si può pensare che la partecipazione ai progetti di sviluppo di queste applicazioni avanzate sia un lavoro entusiasmante, mentre in gran parte è dedicato a comprendere le strutture dei dati e il loro significato nel mondo reale (il cosiddetto “data understanding”), e a pulirli e prepararli. Cosa che può risultare anche noiosa.

LE RICADUTE SULLE ATTIVITÀ UMANE

Un’altra suggestione abbastanza errata è che l’A.I. sia applicabile direttamente alle situazioni reali. In ogni progetto di sviluppo invece è necessaria la presenza di chi conosce bene il settore di applicazione, che sia il commercio al dettaglio, un processo produttivo industriale o le previsioni del tempo. È questo il “business understanding”.

In definitiva, l’intelligenza artificiale e il machine learning che ne è un sottodominio possono essere applicati nella maggior parte delle attività umane, e in molti casi questo già avviene senza che ce ne rendiamo conto. Le sue ricadute occupazionali sono innegabilmente negative nei settori a maggior crescita di automazione ma anche inaspettatamente positive dove migliorano l’efficacia organizzativa, misurabile in base ai tradizionali key performance indicators (KPI), e dove creano nuovi modelli di business. E la sua implementazione richiede una perfetta simbiosi tra coloro che conoscono il business o settore di applicazione, coloro che conoscono la struttura digitale dei dati originari (tipicamente i tecnici informatici del settore di applicazione) e gli A.I. engineer che hanno le competenze specialistiche per creare e valutare modelli di intelligenza artificiale, ma che poco o nulla sanno delle dinamiche interne al settore di attività in cui l’applicativo opererà.

Eugenio Mealli