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COVID-85: se la pandemia fosse arrivata negli anni ‘80

Cari adolescenti, cari liceali di oggi, sappiate che anche noi quarantenni e cinquantenni siamo andati alle superiori, qualche decennio fa. Immaginate una pandemia da Covid a quei tempi, negli anni ’80. Senza internet e smartphone, le uniche informazioni sarebbero arrivate per radio e televisione, e al massimo con informazioni telefoniche di dubbia affidabilità da amici e parenti. Riaperte le edicole, avremmo avuto anche giornali e riviste. Stop.

Ripeto, non esistevano social, né Whatsapp, né videogiochi online, né niente. O ci si incontrava di persona, oppure rimaneva il telefono di casa. Uno solo, con la cornetta e i pulsanti, in molte case addirittura a disco.

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Avremmo fatto lezione al telefono, mezz’ora al giorno a materie alterne. Dopo qualche mese avrebbero organizzato lezioni nazionali unificate su specifici canali televisivi e radio.

Avremmo fatto gli esami di maturità a distanza all’aperto e in parte per corrispondenza.

Avremmo comunque passato molto tempo con i videogiochi di allora, Atari a quadrettoni, Intellivision forse, e gli home computer con 16KB di memoria (sì 16K in totale, non 16MB e nemmeno 16GB!!!). Chi non ha visto un VIC-20 o uno Z-81? Non potevi caricarci nemmeno una sola foto! E chi non aveva niente di questo poteva leggere libri o guardare fuori dalla finestra.

In TV avrebbero dato fondo ai palinsesti, fino a trasmettere Giovannona Coscialunga ad ora pranzo. Compagne di vita, cassette nel mangianastri e, per i fortunati, vinili fruiti su giradischi Sony via circuiti Onkyo.

Tra i nostri genitori, quelli che erano impiegati o dirigenti avrebbero lavorato al telefono, e appena riaperto qualche negozio avrebbero avuto una deroga alle restrizioni per uscire e comprare un fax sovvenzionato, a posteriori come sempre, dallo Stato.

Dopo il primo sconcerto, e con una diffidenza superiore a quella vigente sul ponte delle spie di Berlino, allora ancora in uso, file chilometriche per l’unica attività ammessa: gli acquisti presso l’alimentari all’angolo. Scaffali dotati di poche e talvolta sconosciute marche di pasta e pelati, scorte terminate puntualmente alle 11 e mezza di ogni mattina. Liti sul turno in coda, verbalmente temibili quelle tra esponenti del gentil sesso, e almeno una rissa al giorno tra quelli del non-gentil sesso.

Passata la festa, gabbato lo santo: molti adulti si sarebbero preso affannati alla ricerca telefonica di cuccioli di cane da adottare e di improbabili impieghi anche temporanei presso attività essenziali, al fine di uscire da casa almeno mezz’ora aggiuntiva al giorno. Nei tragici casi di giovani fidanzati/e e attempati/e partner infedeli, anche al fine di raggiungere l’altra/o. Di qui la pronta, dilagante sfiducia delle mogli per l’improvvisa vena animalista dei mariti, e la tardiva sfiducia viceversa, preceduta da ingenue lamentele per l’inutile aggravio sul budget familiare che la nuova adottiva “bestia” avrebbe senz’altro apportato.

Senza connessioni digitali tra le attività economiche e nella catena logistica, mascherine, guanti ed alcool sarebbero stati introvabili per mesi e forse un anno intero. Azzardate miscele casalinghe di prodotti chimici, finalizzate a disinfettare, avrebbero distrutto indumenti, parquet e pelli, anche umane talvolta.

Terminata la fase più restrittiva del lockdown, avremmo avuto quotidiane parate di sciarpe, foulard, passamontagna da arresto, variopinti fazzoletti e tovaglioli di cotone di quel famoso mancato corredo. Si sarebbero facilmente distinti in strada medici ed infermieri, gli unici ad indossare le chirurgiche da loro saccheggiate sul luogo di lavoro, sino ad esaurimento.

Nel rispettivo quartiere, i ragazzi avrebbero, dapprima timidamente, poi sfrontatamente, intrapreso abusivissime partite di pallone nel più vicino praticello. Squadre composte da ragazzi del vicinato magari mai visti prima, derisi dal primo all’ultimo tocco di pallone ma comunque integrati nella compagine sportiva.  La maggior parte delle ragazze delle rispettive comitive avrebbero preferito relazioni sociali più comode ed ergonomiche, sempre presso il medesimo praticello, con lenta costruzione e rapida distruzione di complicati equilibri relazionali tra estranee.

Dopo molti mesi, avremmo scosso il serbatoio della nostra Aprilia 125 o Vespa da residui che avrebbero fatto invidia al grasso di balena, e affrontato mezz’ora di scalciate sul pedalino per asciugare le candele. Per poi arrivare al benzinaio (impianto) e cercare di toccare la latta d’olio solo con due dita nel tentativo di minimizzare il passaggio del virus dal benzinaio (omo), allora italianissimo, anzi romano de Roma, e ciò nonostante ai nostri occhi sicuramente infetto.

I primi vaccini sarebbero stati approntati in tre-quattro anni. Le terapie intensive e le cure palliative sarebbero state meno efficaci, e i decessi forse decuplicati. Per chi fosse stato sfortunatamente ospedalizzato, anche per cause non virali, si prospettava un destino al cui confronto le sparizioni nei regimi totalitari di destra e di manca sarebbero parse delle scampagnate. Ospedali fisicamente irraggiungibili e informativamente inespugnabili. Salvo telefonata al cugino dell’amica del parente, sotto-collaboratore del vice-infermiere, che avrebbe non solo fornito precise coordinate tridimensionali (lì sarebbe nato, credo, il moderno GPS), della stanza di stanza del malcapitato, ma si sarebbe anche prodigato per fargli pervenire un libro, un rasoio, una boccia di vino du’paese imbottigliata in verde vetro marchiato Ferrarelle e soppressata avvolta in calzino cosparso di profumo di terz’ordine al fine di eludere il fine olfatto dei solerti uscieri dell’ospedale. Pari dotazione, doppia e non travisata, ma priva di libro e rasoio, sarebbe giunta nataliziamente al cortese sotto-collaboratore, quale compenso da gentleman agreement.

Nonostante una crisi che allora sarebbe stata molto più pesante di oggi, il comportamento di giovani e adulti non è cambiato molto in questi decenni, se non per aver perso occasioni di umanità e socialità.

E magari il Covid-19 riuscirà a lasciarci anche qualcosa di positivo: un obbligo di riflessione…

Eugenio Mealli