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Cosa resterà

Tratto da Urlo n.181 Luglio 2020

Cosa resterà di questi mesi? Una domanda alla quale dalle pagine di questo giornale abbiamo già cercato di rispondere. Lo abbiamo fatto nelle settimane più dure dell’epidemia e quando (alla vigilia del 18 maggio) tutto sembrava pronto a riprendere. Purtroppo stiamo notando che le buone pratiche costruite nei giorni del lockdown stanno sparendo. Nell’indifferenza e nella routine quotidiana si è perso il book-crossing condominiale, la spesa sospesa e tanti servizi pensati e nati dal basso per i più deboli. Pian piano riprende tutto, ma cosa è rimasto? Con cosa dobbiamo confrontarci?

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Sono soprattutto i problemi a restare, quelli intimi, personali, legati al lavoro, alla socialità persa e alla crisi economica. Uno studio della metà di giugno (Fondazione Onda) pubblicato su molti quotidiani riporta un dato drammatico. Si parla di circa 200mila italiani che usciranno da questa pandemia in depressione. Anche se una frazione di questo dato fosse realistica il problema non sarebbe da sottovalutare. Tanto che l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha inserito tra gli strascichi della pandemia globale anche la salute mentale. Dalla paura del contagio all’apprensione per i cari (magari lontani), passando per il dover restare chiusi in casa e il distanziamento sociale. Sono questi i fattori scatenanti della nuova depressione di questi mesi, che si cumula a quella di circa 3 milioni di italiani. Problemi che si acuiranno con la cassa integrazione prolungata, o con la futura (quantomai plausibile in alcuni casi) perdita del lavoro. Portando (si legge nello studio) il numero dei depressi certificati al pari di quello dei malati di diabete.

Tutto questo non ci interessa? Siamo cinici fino a questo punto? Benissimo. Parliamo di come questo problema, e le sue conseguenze, possano incidere sulle casse dello Stato e su ogni singolo italiano. Il danno è legato ai costi indiretti di questa malattia, dagli assegni previdenziali fino alle assenze dal posto di lavoro o alla scarsa produttività. Un costo che l’emarginazione e il mercato del lavoro scaricano direttamente sulle tasche degli italiani.

C’è poi da considerare il rapporto tra i cittadini, soprattutto in relazione all’età. Questa situazione ha fatto crescere la ruggine generazionale, accentuando ancora di più le differenze? Anche in questo caso sono dei dati di fine giugno pubblicati dal Censis a mostrare una situazione preoccupante, che parla di un crescente rancore sociale e intergenerazionale. Il 49,3% dei nati nel nuovo millennio ritiene che nell’emergenza sanitaria in corso i giovani debbano avere precedenza nelle cure; allo stesso tempo il 26,9% del totale della popolazione (il 35% del campione precedente) è convinto che si spenda troppo per gli anziani. Cosa può portare a questo sentimento tra gli Italiani da sempre legati ai propri ‘vecchi’? Ancora dati (me ne scuserete) che spiegano come dalla Pandemia gli over 65 siano usciti più o meno indenni a livello economico. Nel 90,7% dei casi (Censis) hanno continuato a percepire gli stesi redditi, contro il 44,5% tra i millennial e il 45% tra gli adulti in genere.

I problemi, il divario sociale ed economico, e la rabbia. Sono queste le cose che resteranno? Abbiamo perso anche questa battaglia?

Leonardo Mancini