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Qualche curiosità sul Laocoonte

Un portento dell’arte secondo Michelangelo

Nel 1506 Felice de Fredis, proprietario di una vigna nei pressi delle Terme di Tito, piantando viti nuove sentì un suono cavo sotto al piccone. Dal terreno si aprì una grande sala interrata e in essa si intravide un gruppo marmoreo di tre figure umane avvolte tra le spire di grossi serpenti.

In questo modo, del tutto casuale, fu rinvenuto il famoso Laocoonte che Plinio, dopo averlo visto nel palazzo di Tito, aveva descritto come il più grande capolavoro al mondo, eseguito da tre scultori della scuola Rodia: Agesandro, Palidoro e Atenodoro (il primo era il padre degli altri due), in un solo unico blocco di marmo.

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Le firme degli autori sono ben leggibili sul piedistallo e il marmo è pentelico: non vi può essere alcun dubbio sulla autenticità dell’opera.

Tale scultura rappresenta una leggenda che ci è stata tramandata nella versione più popolare, da Virgilio e da Apollodoro: Laocoonte era un sacerdote troiano che morì stritolato, insieme ai suoi due figli gemelli, da due serpenti marini inviati da una divinità (in alcune versioni Apollo e in altre Atena) che, con il suo comportamento sacrilego, aveva offeso.

Michelangelo, che vide il capolavoro appena dissotterrato, lo chiamò “portento dell’arte”. Rifiutò di restaurarlo non sentendosene degno. Mancavano infatti tre braccia ma riconobbe subito che era impossibile che il gruppo fosse stato realizzato in un sol pezzo. Si tratta infatti di sei pezzi diversi così ingegnosamente incastrati da aver tratto in inganno Plinio.

Leone X fece trasportare il Laocoonte in Vaticano ed ancora oggi è possibile ammirarlo nel cortile Ottogono dei Musei Vaticani. Felice de Fredis ebbe come ricompensa la concessione del pedaggio di porta San Giovanni vita natural durante e sulla sua tomba, nella basilica di Santa Maria in Aracoeli, in un’iscrizione che si legge tuttora, vi è riportato che egli merita l’immortalità per il ritrovamento del capolavoro scultoreo.

 

Massimiliano Liverotti